Per molti di noi il basket è pura passione, magari avviata in giovanissima età, e mantenuta ad alti livelli grazie a giocatori destinati a colpirci, a coinvolgerci, ad appassionarci.
Impossibile non aver mai provato a lanciare quella palla nel canestro, magari ispirati dagli highlights provenienti da oltreoceano, dove lo sport più bello del mondo si sposa con lo spettacolo, in una magia a volte unica. Sì, perché l’NBA è un sogno per chiunque la segua – soprattutto da piccoli – quando tutto sembra possibile e la fantasia non ha limiti.
Deve essere successo lo stesso anche a Conrad Bastien McRae, uno che la massima lega cestistica l’ha sognata e agognata a lungo, molto dopo esser “diventato grande”. Più precisamente la sognava ancora sette anni dopo aver lasciato Syracuse University, crescendo anno dopo anno, concludendo la stagione 1992-93 con 12 punti, 7 rimbalzi e 2.7 stoppate di media nella Big East.
Conrad McRae, pellegrino del parquet
Selezionato dai Washington Bullets al secondo giro del Draft 1993, McRae era passato per la Turchia (al Fenerbahce), poi per la Francia ( al Pau-Orthez), scegliendo l’Efes Pilsen, fino ad approdare a Bologna (sponda Fortitudo) nella stagione 1996-97. Ogni anno cambiava squadra Conrad McRae, tanto da trasferirsi al Paok Salonicco dopo aver perso la finale scudetto con la Benetton Treviso, tornando nuovamente all’Efes Pilsen prima, e in Italia poi, stavolta a Trieste. Era la stagione 1999-2000, la sua ultima in carriera.
In questo continuo peregrinare, c’erano tre cose destinate a seguirlo come un’ ombra.
La prima, un soprannome. Esattamente “Mangiafuoco”, derivato da una clamorosa schiacciata effettuata nella gara apposita durante un All-Star Game a Valencia, saltando tre uomini con un pallone infuocato.
La seconda, l’allegria. Perché McRae giocava un basket spettacolare, e questa sua attitudine unita ad un buon’umore contagioso, lo rendeva beniamino del pubblico ovunque andasse. Era un piacere vedere Conrad sul campo, tanto quanto elettrizzante fosse aspettarsi una giocata unica in ogni azione, tipo alley-oop o reverse dunk: cose che in Europa raramente si erano viste prima. Il tutto condito con esultanze bizzarre, memorabili, capaci di far impazzire i tifosi.
La terza, infine, il sogno della NBA. Perché nonostante le numerose squadre, i successi in Europa ed una carriera tutto sommato soddisfacente da professionista, Conrad McRae voleva provarci. Seppur giunto a 28 anni di età, lui continuava a sperare, cercando in ogni modo di raggiungere il suo obiettivo.
In realtà ci era quasi riuscito con i Denver Nuggets nell’estate del 1999, prima di accasarsi velocemente a Trieste, riuscendo comunque a farsi scritturare dagli Orlando Magic per la Summer League del 2000, dove perse la vita il 12 luglio. Un infarto, praticamente all’improvviso, a fine allenamento. Un infarto a neanche trent’anni, inseguendo un sogno, giocando con la vita per realizzarlo.
La vita per un sogno
Sì, perché nonostante l’allegria e l’atletismo, Conrad McRae sapeva di soffrire di battito irregolare già dagli anni del college, riconosciuto in seguito come una grave forma congenita di tachicardia ventricolare, come il padre, deceduto seguendo lo stesso destino. Eppure a “Mangiafuoco” questa cosa interessava il giusto, perché spesso la cosa non emergeva durante le visite mediche, e lui poteva proseguire saltando di squadra in squadra, di anno in anno. Schiacciando in testa a chiunque, sognando di potersi giocare quella chance che inseguiva da sempre, quella di farlo superando i migliori giocatori del mondo.
Proprio a Denver, in seguito ad uno svenimento e ad una ricaduta dopo un esame sotto sforzo, gli dissero chiaramente che avrebbe dovuto smettere di giocare. Che per lui ogni balzo poteva essere l’ultimo. Che non ne valeva la pena di rischiare la vita.
Ma la pallacanestro era sostanzialmente la vita di Conrad McRae, e il coronamento di quel miraggio inseguito da sempre ne rappresentava l’unico senso, magari insieme all’amore per la compagna Erika, che avrebbe dovuto sposare poche settimane dopo il suo ultimo allenamento.
Quello con la canotta degli Orlando Magic, al termine del quale si accasciò al suolo.
L’ultima volta su un campo nella sua vita – forse rinchiusa nel cassetto dei ricordi troppo presto – indubbiamente memorabile per ogni tifoso tanto fortunato da incrociarlo, emozionandosi con il suo gioco.
Quello di Conrad Bastien McRae, “Mangiafuoco”.
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