Playground deserto vicino casa. Soltanto io e il pallone. Siedo sotto un canestro e fisso l’altro. Nel silenzio del parco immagino l’atmosfera di una partita. Il suono del pallone sul parquet. Le secche grida dei giocatori e degli allenatori. Il fragore dei tifosi dopo ogni punto realizzato, o una stoppata.
Mi rivedo più di vent’anni prima. Domenica mattina di giugno. È il 1998. Guardo su Italia 1 la replica delle finali NBA. Chicago Bulls contro Utah Jazz. La storia. La registro su una vecchia videocassetta usata mille volte. Interruzione pubblicitaria. Buio. Appare un tunnel con delle luci verdastre. Inquietante. Avanza Kobe Bryant in palleggio. Veste giallo Lakers. Crossover dopo crossover si fa strada tra mostri e demoni che lo provocano sulla sua sfacciataggine e sui suoi successi precoci, alla stregua di malelingue benpensanti. Li affronta palla in mano. Li supera. Li scaccia infine con un gesto perentorio. Silenzio. Concentrazione. Un canestro innaturalmente alto. Tiro. Dentro. Il suo sguardo. La sua voce. «Se non credi in te stesso, chi ci crederà?».
Lo spot dell’Adidas. Kobe ha vent’anni. Io sedici. Quell’estate è fatidica per me. Inizio a prendere coscienza di me stesso. A farmi rispettare. A credere nelle mie possibilità. Lo devo anche al tiro decisivo di Michael Jordan, così come allo spot di Kobe Bryant. Credi in te stesso. È alla base di tutto. La cosa più importante. Prima ancora di stabilire ogni obiettivo, programma, metodo. Se non credi in te stesso, non vai da nessuna parte.
Oggi è un altro mondo. Prendo lo smartphone dallo zaino, apro YouTube e rivedo lo spot del ’98. Ancora una volta. Sgranato come quello che compariva sul vecchio televisore di casa, nei time out delle Finals di oltre vent’anni fa. A lungo dimenticato, ho iniziato a riguardarlo spesso. Certe cose si ripetono. Nell’estate precedente alla stagione in cui Kobe se ne sarebbe andato per sempre, avevo scelto di ripartire, dopo un periodo non facile della mia vita. Quei periodi in cui sembri aver perso te stesso, in cui niente sembra più riuscirti come prima. Per ricominciare, mi sono affidato di nuovo a Kobe. Mi sono immerso nei libri e nei dettami della Mamba Mentality. Ho preso gli spunti essenziali da adattare al mio stile, al mio metodo, al mio contesto. Perché ciascuno ha il suo. Non tutto va bene per tutti. Ognuno di noi ha i suoi specifici tasti da toccare.
Ho avvertito il bisogno di sentirmi dire di nuovo che se ci si crede, tutto è possibile. Believe in yourself. Sono ripartito per una nuova stagione, un nuovo viaggio, una nuova esperienza. Perché la vita, almeno per chi sa darle un senso, è una stagione, un campionato. Vittorie, sconfitte, gioie, dolori, allenamenti, routine, ostacoli, momenti difficili, svolte, momenti decisivi. Ho voluto sentire la voce di Kobe Bryant. In italiano. Kobe mi ha sempre accompagnato, fino a oggi, e ancora una volta avevo scelto di ispirarmi a lui per rilanciarmi. Poco più che coetaneo. Cresciuto nell’Italia di provincia, come me. Kobe c’è sempre stato. L’ascesa. I trionfi. La caduta. Il riscatto. La scoperta. La condivisione. La grandezza. La nuova vita. L’addio.
26 gennaio 2020. Il giorno nero di un anno nero. Kobe non c’è più. Non sembra vero. Invece lo è. Lo sconvolgimento. Il vuoto. Come il campo davanti a me. Il frastuono della partita si dissolve. Un mite alito di vento fa ondeggiare le foglie primaverili sui rami. Sento il calore del sole sulle mani che stringono un vecchio Wilson arancione. Mi alzo e inizio a palleggiare. Vado verso il canestro e faccio un terzo tempo. Semplice e preciso come quando giocavo. Non ho dimenticato come si fa. Believe in yourself.
[Tratto da ‘Il parquet lucido. Storie di basket‘
di Francesco Mecucci, Ultra Edizioni, Roma, 2020]