New York, le origini italiane, la NCAA: cosa c’è stato di più americano di Lou Carnesecca?
I natali nella Grande Mela, le radici a Pontremoli, alta Toscana, e quel college basketball così centrale nella società e nella cultura sportiva d’oltreoceano. Dove i giocatori passano e sono gli allenatori a restare, anche per decenni, sulla stessa panchina. Diventano personaggi, esempi, leggende. E Carnesecca, scomparso il 30 novembre 2024 a 99 anni (a poco più di un mese dal suo centesimo compleanno), memoria di ferro e lucidità invidiabili fino all’ultimo giorno, è stato tutto questo.
Simbolo indiscusso di St. John’s, l’università cattolica del Queens, quest’uomo d’altri tempi ha guidato la squadra di basket maschile per ventiquattro stagioni. Lasciando un segno tale da vedersi intitolata l’ex Alumni Hall, dal 2004 appunto Carnesecca Arena, il palazzo da 5600 posti nel campus del quartiere di Jamaica. E nel 2021 anche una statua che lo ritrae con pugno chiuso e maniche rimboccate, a rievocare l’energia che sfoderava a bordo campo a ogni partita.
Un classico allenatore di college vecchio stile, tutto casa, chiesa e palestra. Magrolino, occhi e bocca curiosamente piccoli, capelli con riga laterale da ragioniere nascondevano un uomo energico, carismatico, generoso e dalla parlantina vibrante, con quella voce rauca che non ammetteva dubbi. Non alto, ma in grado di farsi ascoltare dai giganti in campo, rispettoso e rispettato, dotato di grande ironia e brillante intuito. E con un pizzico di stravaganza che lo portava a vestire maglioni così colorati e fantasiosi che si farebbe fatica a indossare anche al pranzo di Natale.
Ha vinto centinaia di partite nel corso della sua carriera. Tuttavia ripeteva più volte che il successo che ricordava con maggior piacere era una partita che non contava nulla: un’amichevole con la nazionale dell’Unione Sovietica del colonnello Gomelsky, nel 1977, in piena guerra fredda. Si giocò in America, con arbitri americani, e fu decisa da una dubbia chiamata a favore di St. John’s, per una presunta invasione di area su un tiro libero. Alla fine Carnesecca andò dal collega e gli disse, spiazzandolo e strappandogli un sorriso: «Pensi che se avessimo giocato a Mosca, avremmo vinto noi?».
La legacy di Lou Carnesecca
Lou Carnesecca ha lasciato a St. John’s un’impronta indelebile e un’enorme legacy. Nessun titolo nazionale, ma poco importa. Ci sono abituati, a New York. Tanto il basket lo seguono lo stesso, perché è sempre il City Game.
St. John’s è un college molto amato in città. Soprattutto nel Queens è una passione profonda per gli abitanti della Big Apple più verace e popolare, lontana dalle luci di Manhattan. L’ateneo dei mitici Wonder Five degli anni ’20. L’unico programma sopravvissuto ad alti livelli anche dopo lo scandalo scommesse del 1951 che travolse il basket universitario di New York, i cui atenei all’epoca ne costituivano una prestigiosa componente.
Ogni tanto, i Red Storm – fino al 1995 Redmen, poi il cambio per questioni di politically correct verso i nativi americani – che poi per tutti sono semplicemente i Johnnies, hanno il lusso di giocare qualche partita di regular season al Madison Square Garden. E sono, o almeno erano, capaci di riempirlo, soprattutto in occasione degli scontri con le super rivali Georgetown e Villanova nella Big East Conference. Qui alla “Mecca del basket”, nel 1942, il diciassettenne Lou Carnesecca assiste per la prima volta a una partita degli allora Redmen. Si innamorà di quelle divise e iniziò un rapporto che nel giro di un anno lo avrebbe portato a giocare per loro.
Carnesecca è entrato nel cuore dei newyorchesi con le qualità umane, la vitalità, il senso dell’umorismo e la storia personale. «Le cose succedono. Mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto», ha sempre detto della sua vita, in cui ha rivestito un ruolo importantissimo per tanti giocatori usciti da St. John’s e ha mantenuto forti legami pressoché con tutti: «Le vittorie, le sconfitte, saranno presto dimenticate. Invece le relazioni che costruisci con le persone con cui vieni a contatto dureranno una vita. Il basket è importante, ma è solo una piccola parte di quello che siamo».
La carriera da allenatore
Coach Carnesecca guida St. John’s dal 1965 al 1970 e dal 1973 al 1992, dopo esserne stato assistente dal 1958 al 1965. In mezzo, un intervallo di tre anni in ABA ai New York Nets. Qui allena Rick Barry e perde le finali 1972 contro gli Indiana Pacers. L’esperienza nella lega professionistica che nel 1976 si scioglie nella NBA l’ha sempre considerata un periodo di momentanea follia: il suo mondo era il college.
Mentre in ABA registra 114 vittorie a fronte di 138 sconfitte, il suo bilancio sulla panchina dell’università del Queens recita 526 vittorie con sole 200 sconfitte in 24 stagioni. Numeri che collocano la squadra biancorossa nella top ten di ogni epoca per numero di vittorie in NCAA Division I. Un programma capace di mantenersi ai vertici nazionali, pur prediligendo un essenziale reclutamento sul territorio, che difficilmente si spingeva oltre il New Jersey o le prime propaggini della Pennsylvania.
Carnesecca riesce a portare ogni anno i Redmen nella postseason con record vincente. Per 18 anni su 24 accede al torneo NCAA con due approdi alle Elite 8 (1979 e 1991) e il punto più alto rappresentato dalla Final Four del 1985. Qui, la squadra che annovera Mark Jackson, Chris Mullin, Walter Berry, Bill Wennington, Ron Rowan, Shelton Jones, Willie Glass perde in semifinale con la Georgetown di John Thompson, suo grande rivale.
Tre volte coach dell’anno della Big East (1983, 1985 e 1986), Carnesecca ha collezionato anche due Henry Iba Award (1983 e 1985), premio destinato al miglior coach universitario dell’anno. In bacheca anche un NIT nel 1989. Tra i suoi giocatori degli ultimi anni spiccano Jayson Williams, problematico futuro centro dei New Jersey Nets e Malik Sealy, che andrà incontro a un triste destino, morendo in un incidente stradale quando giocava nei Minnesota Timberwolves. Carnesecca ha allenato anche un italiano, Marco Baldi, a St. John’s nell’ultimo anno di Walter Berry. Si ritira nel 1992, dopo un’uscita al primo turno con Tulane.
Speciale, e sempre signorile, era il suo rapporto con i suoi grandi avversari in panchina, Oltre a Thompson, c’erano Rollie Massimino, Bill Raftery, Joe Mullaney, Dom Perno, Jim Boeheim. Racconta Carnesecca: «Una volta giocavamo con Seton Hall, entrava ogni tiro, eravamo sopra di 40 nel secondo tempo e stavo facendo entrare tutti. Sento un colpetto sulla mia spalla. Era uno dei manager di Seton Hall che mi dà un pezzo di carta. Disse che Raftery voleva che io lo leggessi. C’era scritto: “Mi arrendo. Se vuoi lavorare un po’ contro la zona, la farò”».
Le origini di Carnesecca
Lou Carnesecca, all’anagrafe Luigi, nasce il 5 gennaio 1925 a New York. Entrambi i genitori sono italiani e hanno varcato l’oceano appena tre anni prima, nel 1922, per cercare una vita migliore. Non che fossero in condizioni di indigenza, ma volevano semplicemente qualcosa di meglio che spaccare rocce e coltivare un appezzamento di terra nell’aspra Toscana settentrionale, a Pontremoli, in frazione Cargalla, dove «ci sono solo pietre, e ognuno è scultore», ricorderà poi Lou.
I Carnesecca rappresentano la vita dura dell’emigrante. Il padre Alfredo comincia massacrandosi la schiena nei cantieri, poi lui e la moglie Adele Pinotti finiscono a lavorare in un negozio di alimentari a East Harlem. E saranno così bravi da rilevarlo: sogno americano. Affrontano la Grande Depressione, prendendo in prestito soldi per andare avanti e cercando di aiutare più gente possibile. Lavoro duro e fede cristiana sono la bussola che li orienta e con cui educano il figlio.
Lou, da ragazzo, il sabato pomeriggio deve sistemare il retrobottega e lavare i pavimenti prima di andare a giocare a baseball o a stickball, la versione da strada. Cresce con valori sani che non abbandonerà mai. Neanche quando il padre lo vorrebbe medico ma lui, dopo aver provato controvoglia a Fordham, preferisce andare a St. John’s con i suoi amici a studiare storia e inseguire il sogno dello sport. Sposa Mary, amica di adolescenza, che resterà con lui per più di settant’anni. Dopo aver prestato servizio nella guardia costiera durante la seconda guerra mondiale, riesce a tornare all’università per completare gli studi, laureandosi nel 1950. Con St. John’s il legame è fortissimo, ma di giocare a basket non se ne parla: è scarso. Meglio allenare: ha innate doti da insegnante e un carattere che lo porteranno in alto.
Gli inizi in panchina di Lou Carnesecca
Il primo incarico in panchina arriva proprio quell’anno, alla St.Ann’s Academy, il liceo dove era stato studente. Lo guida fino al 1958 vincendo due volte il campionato delle scuole cattoliche di New York (1952 e 1958), allenando i futuri professionisti Tommy Kearns e York Larese. Oggi quella scuola si chiama Archbishop Molloy (precisamente dal 1957, alla vigilia dell’ultimo anno di Carnesecca lì) e vanta tuttora una rinomata tradizione cestistica. Infatti ha prodotto giocatori quali Kevin Joyce, Bryan Winters, Kenny Smith, Cole Anthony, Kenny Anderson, Sundiata Gaines.
Finita quell’esperienza, Lou diventa assistente del leggendario Joe Lapchick. Cioè lo storico allenatore che aveva tenuto St. John’s fuori dallo scandalo del 1951 e che l’anno seguente portò la squadra alla finale per il titolo NCAA. Lapchick allena i Johnnies in due fasi, intervallate dall’interregno di Frank McGuire e Al DeStefano, dal 1936 al 1946 e dal 1956 al 1965, anno in cui subentra Carnesecca. È l’inizio di un’avventura durata una vita e finita nel 1992, all’età di 67 anni.
Il coach commenta così il suo addio: «Pochi possono dire basta quando vogliono, io ho avuto questa fortuna. Smetto adesso che sono ancora in gamba, che ho ancora il palato dolce. L’unico rimpianto è non aver mai vinto un titolo. Ma, come si dice qui, non tutti possono diventare presidente. E allora penso alle centinaia di partite vinte, a tutti i paesi che il basket mi ha fatto vedere, a tutti i ragazzi che ancora oggi vengono a trovarmi».
Coach Carnesecca e i suoi metodi
Anche se Lou Carnesecca ha allenato una pallacanestro diversa da quella di oggi – in NCAA lo shot clock è stato introdotto solo nel 1985 (e da 45 secondi…) e il tiro da tre l’anno successivo – l’impatto delle sue idee sul gioco furono notevoli, anche al di qua dell’oceano. I suoi numerosi clinic estivi negli anni ’60 in Italia, il paese dei genitori di cui conosceva la lingua, sono stati fondamentali per introdurre concetti come l’aiuto difensivo e la difesa a zona pressing secondo linee diagonali con raddoppi in punti strategici del campo.
Gli allenamenti a St. John’s non duravano mai più di due ore. Lou era profondamente consapevole dell’importanza del tempo da dedicare allo studio. Sosteneva che i dollari stessero rovinando l’università. Ed era orgoglioso che un’elevata percentuale dei suoi allievi riuscisse a laurearsi: «È stata una lotta farli studiare, ma non me ne pento. Questi giovani vengono al college per ricevere un’istruzione ed è giusto che si lasci loro il tempo di preparare gli esami. Anche se mi rendo conto che è sempre più difficile. La gente paga il biglietto per vedere una partita, non gliene frega nulla di assistere a un esperimento scientifico».
Le sedute in palestra di Lou Carnesecca erano perciò programmate nel segno dell’efficienza, con estrema attenzione ai dettagli. Ogni esercizio aveva una durata predefinita e l’intensità cresceva in progressione. I suoi interventi decisi ma pacati, con un tono di voce persuasivo. E tutto ciò contrastava fortemente con il suo agitato modo di fare e la frenetica gestualità che teneva in partita, dove consumava le scarpe macinando chilometri lungo la linea laterale, sedendosi e alzandosi continuamente, parlando senza sosta con tutti, arbitri e allenatori avversari inclusi, anche se mai con maleducazione. Perché, al di là dei valori morali, la vittoria era sempre il suo faro: «Porterò sempre con me la ferita dell’ultima partita persa: la sconfitta è come un pugnale, un’agonia, e solo con un’altra vittoria si può guarire».
La magica stagione 1984-85 di St. John’s
La squadra del 1985 rappresenta il momento di gloria di Lou Carnesecca, culmine di una storia nata dai playground e dalle palestre dell’area metropolitana di New York, da cui provenivano gran parte dei giocatori, sei dei quali sarebbero finiti in NBA. Un momento magico per la pallacanestro cittadina: alle loro partite l’atmosfera è elettrica. Il livello della Big East è davvero alto in quel periodo. Basti pensare che per l’unica volta nella storia della NCAA, tre college sui quattro della Final Four (St John’s, Georgetown, Villanova), giocata in Kentucky, vengono della stessa conference.
Il leader degli allora Redmen è Chris Mullin, futuro membro del Dream Team ’92. Un ragazzo di Brooklyn di origini irlandesi che lavora duro ogni giorno. Mullin tornerà ad allenare la squadra dal 2015 al 2019. Sotto canestro c’è un canadese, Bill Wennington, futuro membro dei Chicago Bulls di Michael Jordan. Coach Carnesecca costruisce una forte chimica di squadra, facendo capire a un gruppo eterogeneo che avrebbero dovuto giocare insieme. La stagione regolare è condizionata dagli infortuni, ma le vittorie con North Carolina e l’arcirivale Georgetown segnano i momenti di svolta. E Walter Berry, realizzatore straordinario visto poi anche in Italia a Cantù, è il pezzo mancante.
Quando Georgetown elimina St. John’s in semifinale, finisce una straordinaria avventura. Però il legame tra quei ragazzi rimane cementato per sempre. Lou Carnesecca, prima di ritirarsi, allena per altri sette anni. In seguito resta una figura di riferimento per il college newyorchese, presenza molto frequente sugli spalti fino a tardissima età. Ha visto passare di fronte a se centinaia di giocatori, sopravvivendo in vari casi a diversi di loro. La pallacanestro, la vita, le relazioni: tutto fa parte del gioco. E come era solito ripetere, “amo il basket così tanto che avrei allenato gratis“.
Prima foto in alto © Andy Hayt / Sports Illustrated via SI.com