Chi era Christian Laettner? Un ragazzone bianco con il sorriso da killer, provocatorio e beffardo nel sottolineare agli avversari (in campo e sugli spalti), quanto fosse forte. Quanto vincesse sempre lui, senza lesinare colpi proibiti.
Titolare di quasi 13 punti e 7 rimbalzi di media in 868 gare da professionista, dividendosi tra Minnesota e Atlanta nei migliori anni della carriera, per proseguire a Detroit e Washington, con due fugaci apparizioni a Dallas e Miami, chiudendo la sua esperienza cestistica dopo 13 anni di NBA.
Ma il mito di questa odiatissima ala grande, nasce e si sviluppa principalmente al college, con quattro anni da incorniciare come simbolo di Duke. Per lui 16.6 punti e 7.7 rimbalzi per gara, in un quadriennio completo da leader incontrastato dei suoi anche per percentuale assoluta da dietro l’arco. Disputa quattro Final Four consecutive, detiene ancora oggi una serie di record destinati a resistere, vince due titoli nazionali (1991 e 1992) e viene ricordato come il più grande giocatore di sempre nella storia della pallacanestro universitaria. E non solo per longevità e risultati.
Nell’estate del 1992 entra nella storia del gioco anche per essere l’unico non professionista a roster nella squadra più forte di sempre, il Dream Team originale, selezionato a scapito di Shaquille O’Neal e destinato a svolgere la parte dell’invisibile. Ma intanto si porta a casa un oro olimpico, e scusate se è poco.
Anche perché al piano di sopra le soddisfazioni scarseggeranno, giocando per lo più per squadre perdenti, senza particolari acuti anche in materia di “momenti che contano disputati”. Se ne valutiamo la carica agonistica e la competitività dimostrate in gioventù, si tratta di una mancanza non da poco per il buon Christian, che tuttavia deve essersi messo l’anima in pace presto, limitandosi a scorrettezze e trash talking circoscritti alle singole sfide stagionali. Accontentandosi di poco, per necessità.
Ma non è la carriera professionistica di Laettner, quella indagata nel documentario di ESPN uscito per la serie 30 for 30 in analisi, datato 2015 e diretto da Rory Karpf, con voce narrante di Rob Lowe. Il titolo della produzione spiega sostanzialmente tutto – I hate Christian Laettner – e sviluppa la sua indagine attraverso tutte le sfaccettature caratterizzanti il personaggio, passando attraverso le indimenticabili prodezze sul campo.
Come dimenticarsi del suo clamoroso buzzer beater, per decidere il Regional nel torneo NCAA 1992 contro Kentucky? Una delle partite più belle di sempre nella storia del college basketball, letteralmente dominata da Christian che la chiude con 31 punti e 7 rimbazi, con 10 su 10 dal campo e 10 su 10 dalla lunetta. Una prestazione perfetta conclusa con un canestro iconico, decisivo quanto quello messo a segno due anni prima contro Connecticut, nella Final Eight del torneo NCAA.
Quindi – come dicevamo all’inizio – abbiamo un villain ben dotato da Madre Natura, un presunto “figlio di papà” nell’università più notoriamente bianca e bigotta dell’intero Northeast. L’elitaria Duke con i suoi antipaticissimi Blue Devils, destinati a interrompere sogni di gloria di squadre come la Michigan dei Fab Five, precursori della moda baggy e della cultura hip hop.
Che poi Laettner non fosse di estrazione aristocratica e che sudasse sette camicie per raggiungere quei risultati che apparivano scontati, è un altro discorso, per altro ben sviluppato attraverso interviste e testimonianze all’interno del lavoro. Un’opera di assoluto interesse che decompone i luoghi comuni costruiti attorno all’antipatico per antonomasia, raccontandone lo spirito competitivo, rendendo onore alle sue gesta ed anche a quella sbruffonaggine ampiamente giustificata dei risultati ottenuti.
Cicatrizzando gli anni migliori di un giocatore mai sbocciato completamente in NBA per una serie di fattori – magari non tutti dipendenti dalla sua volontà – non sufficientemente deludente da considerarsi un “what if” a posteriori, ma di certo fuori dal firmamento degli indimenticabili.
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