ESPN 30 for 30, “Without Bias”: la recensione

Un ragazzo e i Boston Celtics. Il momento in cui la vita di un giocatore passa alla fase successiva, quella di professionista, dopo la tanto sognata selezione nel Draft NBA.

La storia – troppo breve, neanche 48 ore – in cui passi da “nuovo Michael Jordan” a “il più forte cestista a non aver mai esordito in NBA”, per il più tragico dei finali. Quella di Len Bias, raccontata nel documentario prodotto da ESPN per la serie 30 for 30 dal titolo Without Bias, diretto da Kirk Fraser. Senza di lui.

La franchigia più titolata nella storia della lega si presenta al Draft del 1986 da campione del mondo uscente, con un record di 67 vinte e 15 perse in regular season e la vittoria in finale contro i Rockets di Sampson e Olajuwon. Larry Bird ha appena completato la doppietta di MVP (stagione e Finals), mentre il nuovo arrivato Bill Walton è stato eletto Sixth Man of the Year. In quella squadra ci sono anche McHale, Parish, Dennis Johnson, Danny Ainge e una seconda scelta assoluta da spendersi nel Draft, grazie al genio di Red Auerbach.

È lui, il presidentissimo dei Celtics dopo averli guidati dalla panchina nella creazione di una dinastia inarrivabile, a cedere la guardia Gerald Henderson a Seattle, ottenendo così la pick che significa ricostruzione immediata, senza passare da cadute e risalite.
Il primo oggetto del desiderio sarebbe Brad Daugherty, centro proveniente da North Carolina che finisce a Cleveland per una scelta ottenuta dai Philadelphia 76ers. Uscito di scena lui, è inevitabile selezionare “Frosty”, reduce da quattro anni pazzeschi a Maryland (particolarmente, gli ultimi due).
Len è un’ala piccola potente, capace di saltare, di tirare, di giocare anche per i compagni. È la cosa migliore vista sui parquet collegiali dall’abbandono dei Tar Heels da parte di MJ, nel frattempo divenuto sensazione in quel di Chicago, dopo appena due anni. Bias ha stupito tutti durante i work out precedenti al Draft, in quel di Boston: il futuro della franchigia è nelle sue mani, e se tutto va come dovrebbe, il naturale calo di rendimento tipico della fine di un’epoca, non ci sarà per i Celtics.

A questo punto tutto si muove velocemente, come spesso accade nei momenti centrali della vita di un uomo. Len Bias si reca a New York con il padre, per ricevere l’acclamazione destinata al secondo nome in lista chiamato dal commissioner David Stern. Seguono interviste e foto di rito, grandi sorrisi, soddisfazione. Larry Bird dichiara che, per l’occasione, parteciperà agli allenamenti estivi con il nuovo arrivo, per aiutarlo da subito nella sua formazione. La mattina seguente “Frosty” è atteso negli uffici della Reebok, con la quale sigla immediatamente un contratto di sponsorizzazione: è il volto nuovo di una squadra che ha appena vinto, la più forte del mondo, come non investirlo immediatamente di attese e responsabilità?

Quel pomeriggio stesso se ne torna in Maryland, abbraccia la madre e la famiglia prima di uscire a festeggiare con i suoi amici, i compagni di squadra al college. Len è amato, adorato, ammirato. Tutti vogliono un pezzo di Len Bias, a maggior ragione adesso che ufficialmente sarà ricchissimo e destinato al successo. È una vecchia storia che si replica da sempre.
Nessuno ha mai messo in dubbio la sua etica del lavoro, fino ad allora. Tutti raccontano di un ragazzo determinato a migliorarsi, concentrato nel lavorare per la realizzazione del suo sogno, che adesso stringe tra le mani con felicità, e forse un pizzico di timore. Nessuno ha mai pensato a quello che si nasconde dietro ai divertimenti di un ragazzo all’università, alle feste, alla droga, alla cocaina. Eppure quest’ultimo è un problema ormai dibattuto, passato per anni sotto traccia nei sussurri di chi conosceva le dinamiche viziose negli spogliatoi dei pro, divenuto pubblicamente da spazzare via per ripulire l’immagine della lega. In nome anche della salute dei suoi atleti, la stessa che le dinamiche di entusiasmo collegiali mettono spesso in pericolo, rinchiusi tra le stanze di un dormitorio o una confraternita.

Nella notte tra il 18 e il 19 giugno del 1986, Lens Bias detto “Frosty” si sente male in seguito all’assunzione di cocaina in compagnia di alcuni compagni di squadra, tirata su insieme a qualche birra ingurgitata, per festeggiare il traguardo. Tutti i tentativi di rianimarlo sono vani. La seconda scelta assoluta dei Celtics non potrà mai mostrare il suo talento in campo, perché muore trasportato d’urgenza in ospedale, alle 9 del mattino seguente.

Tutto quello che c’è da sapere e ricostruire attorno a questa storia, lo indaga perfettamente Fraser nel suo documentario uscito nell’ormai lontano 2009, capace di far riemergere lo spirito di un ragazzo inevitabilmente finito nel dimenticatoio. Per gli amanti dei what if – in questo caso del più amaro della categoria – si tratta indubbiamente di un must da vedere. Anche perché ad ogni immagine di Len Bias, che galoppa e si erge sui difensori collegiali per concludere in roboanti schiacciate, viene da esclamare “cosa ci siamo persi!”.

Se Len Bias fosse vissuto, mi sarei ritirato nel 1988” ha dichiarato Larry Bird. E chissà se, in quel caso, sul tetto dell’attuale TD Garden ci sarebbe stato qualche stendardo appeso in più, considerando che dal 1986 l’unico altro Larry O’Brien Trophy issato al cielo è quello del 2008. Quello di Pierce, Garnett e Allen. L’ultimo, ad oggi.

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