Glory Road, film del 2006, ci porta nel cuore degli anni ’60 e nella profondità degli Stati Uniti. Un contesto in cui, per un ragazzo afroamericano, il basket può significare l’unica strada di emancipazione e riscatto sociale da una realtà intrisa di razzismo e intolleranza.
Il film di James Gartner, con un intenso Josh Lucas nel ruolo del protagonista Don Haskins, si basa sulla stagione della Texas Western (oggi University of Texas El Paso) che nel 1966 vinse il titolo NCAA schierando un quintetto di soli giocatori di colore.
Prodotto da Disney e Jerry Bruckheimer, Glory Road si inserisce nel ripetuto, forse un po’ stereotipato ma sempre gradevole ed emozionante filone della cinematografia sportiva a lieto fine made in USA. La storia di un gruppo di underdogs che compie un’impresa contro avversari ritenuti imbattibili. In questo caso la Kentucky di un coach Adolph Rupp sapientemente interpretato da Jon Voight.
In Glory Road però, ed è questo l’aspetto fondamentale, la narrativa della vittoria contro ogni pronostico procede di pari passo con il tema che ha reso esemplare questa storia: la lotta contro un antagonista subdolo e diffuso come la discriminazione razziale.
Ed ecco allora che i Miners di Texas Western diventano la squadra del destino, scendendo sul parquet con una quantità di atleti neri mai vista prima, in quello che era il campionato dei bianchi. Forieri di una storia che, non molto più tardi, non esiterà a decretare che il futuro della pallacanestro sarebbe stato scritto dagli afroamericani.
Glory Road, quando vincere cambia tutto
Glory Road si apre con il carismatico Don Haskins, giovane e ambizioso coach di una squadra liceale femminile, che riceve l’offerta della vita: allenare un college di NCAA Division I. Texas Western, però, non è proprio quel che si aspettava. Nella lontana El Paso, città al confine con il Messico e in uno stato dominato dal football, i soldi sono pochi e l’appeal sui migliori prospetti praticamente nullo.
Allora, in barba ai pregiudizi, Haskins decide di rovistare nel sommerso. Va a a reclutare giovani di colore di grande talento ma snobbati dagli altri college, relegati ai margini o ridotti a giocare solo nei playground alla fine del turno in fabbrica. Sette di loro – Bobby Joe Hill, David Lattin, Nevil Shed, Harry Flournoy, Willie Cager, Orsten Arits, Willy Worsley – prendono così l’inattesa via del Texas meridionale.
Insieme ai cinque bianchi della squadra – Jerry Armstrong, Louis Baudoin, Dick Myers, Dave Palacio, Togo Riley – coach Haskins, con disciplina e allenamenti durissimi, allestisce un gruppo che plasma fino a renderlo pressoché imbattibile. Una volta superate le diffidenze iniziali, infatti, i Miners infilano una vittoria dietro l’altra. E, partita dopo partita, si concretizza il sogno di arrivare fino in fondo.
Tuttavia, più i Miners vincono, più aumentano gli episodi di intolleranza nei loro confronti, soprattutto in trasferta. Aggressioni, intimidazioni, minacce, atti vandalici, oltre al nemico peggiore: l’indifferenza della gente. Anche i bianchi della squadra, così, si trovano a sperimentare sulla propria pelle ciò che i loro compagni di colore sono costretti a sopportare. E da ben prima di loro.
Nelle difficoltà, i ragazzi riescono a guardarsi in faccia e a trovare la forza di proseguire uniti nel loro percorso vincente, fino all’ultima, estrema decisione di Haskins: schierare, nella finale per il titolo, esclusivamente giocatori neri. La vittoria sportiva si rivela la miglior catarsi, la miglior medicina per abbattere ogni barriera e spingere le persone a guardare al valore di una persona e non al colore della pelle. Winning changes everything, vincere cambia tutto, come recita il claim del film.
Curiosità e riferimenti storici
Glory Road – titolo ripreso dall’omonima autobiografia di Don Haskins – ben ricostruisce l’atmosfera degli anni ’60. Atmosfera ulteriormente accresciuta dal fascino delle vecchie palestre. Come quella della Chalmette High School in Louisiana, che nella finzione è l’impianto casalingo dei Miners. Varie scene hanno trovato location nel vero campus e a El Paso.
La cura dei dettagli e le coinvolgenti scene di gioco fanno passare in secondo piano le licenze narrative. Nella realtà, Don Haskins non vinse il titolo al primo anno, ma allenava già lì da quattro stagioni. E il film omette clamorosamente la formula della Final Four, caratteristica imprescindibile del Torneo NCAA. Dal regional contro Kansas si passa direttamente alla finalissima contro Kentucky (dove milita un giovane Pat Riley), saltando la semifinale vinta dai Miners contro Utah.
Anche le figure dei due allenatori rivali sono un po’ romanzate. La scelta di Haskins di far giocare un quintetto di neri, come ammetterà in seguito, non era una sfida ai razzisti. Era dettata semplicemente dalla volontà di schierare i migliori. Haskins era un uomo di mente aperta e non aveva bisogno di provocare nessuno. Nel film, inoltre, si fa attenzione a non far passare l’altezzoso coach Rupp come razzista. Infatti è difficile ritenere che lo fosse: aveva già reclutato afroamericani a Kentucky.
Più volte si nota Haskins che intima ai suoi giocatori, in particolare a Lattin, di non schiacciare. All’epoca la schiacciata era considerata un gesto irrispettoso. Il regolamento, infatti, vieterà le schiacciate dal 1967 al 1976, sembra per arginare proprio Texas Western. Ma anche per limitare un giocatore dominante che stava arrivando a UCLA, Lew Alcindor, in seguito meglio noto come Kareem Abdul-Jabbar.
A proposito di UCLA, la stagione 1965-66 di Texas Western risalta ancor di più perché costituisce l’unico “intervallo” all’interno della famosa dinastia di UCLA di coach John Wooden. Don Haskins, senza più vincere il titolo nazionale, allenerà a El Paso fino al 1999. È scomparso nel 2008 a 78 anni, giusto un anno dopo l’inserimento della sua squadra campione nella Hall of Fame.