Sull’asfalto dei playground di Harlem, il quartiere afroamericano di New York, tanti anni fa sbocciò una leggenda troppo presto appassita, ma il cui spirito avrebbe vissuto per sempre nel cuore, nei sogni e nell’anima di ogni giocatore di basket da strada e non solo: Earl “The Goat” Manigault, il più famoso streetballer di tutti i tempi.
“Goat” letteralmente sta per “capra” e forse per una storpiatura del cognome divenne il suo nickname, in un mondo in cui tuttavia da sempre i soprannomi sono un segno di rispetto e credibilità. Ma questo termine si presta a un favoloso acronimo che viene affiancato ai migliori in assoluto: Greatest Of All Time.
Goat, il più grande, e non ha dubbi Kareem Abdul-Jabbar quando, nella sera della sua ultima partita NBA, Chick Hearn, la “voce” dei Lakers, gli chiede chi sia stato il più forte di tutti mai affrontato in carriera: “Se posso dirne soltanto uno, accidenti, non può essere che Goat“.
Rebound, il film su “Goat”
Questa scena esemplare apre Rebound – The legend of Earl “The Goat” Manigault, film per la tv prodotto da HBO nel 1996 e basato sulla vita del leggendario giocatore. Rebound come rimbalzo, ma anche nel senso di recupero, ripresa, ritorno alla serenità: una costante che attraversa la travagliata e inesorabile esistenza del giovane di Harlem.
Il film è diretto, oltre che interpretato, da Eriq La Salle (il dottor Peter Benton della serie E.R.), con Don Cheadle nel ruolo di Earl Manigault e con il fratello Colin Cheadle nei panni del Goat ragazzino. Un cast importante che annovera anche Forest Whitaker nella parte di Holcombe Rucker, James Earl Jones (il preside McDuffie), Michael Beach (il boss Legrand) e la comparsata di un ventenne Kevin Garnett nei panni di Wilt Chamberlain.
Più in alto di tutti è il titolo del film nella versione italiana, che come spesso accade non è felicissimo, ma accenna comunque a una caratteristica basilare di “Goat”: la sua pazzesca elevazione che, insieme al luminoso talento affinato giorno e notte sui campetti del quartiere, gli consentiva di ovviare alla bassa statura e di affondare nel canestro prodigiose schiacciate come la double dunk. Gesta tramandate per via orale, in un’epoca, gli anni ’60, in cui internet e tante altre cose non c’erano. E come tali sconfinati in una dimensione leggendaria, ma tale da garantire a Earl una notevole fama in tutta New York, dal Bronx a Brooklyn.
“Goat” non seppe mai sfruttare nel modo giusto il suo grande dono. Avrebbe potuto giocare ad alto livello al college prima e, chissà, nella NBA poi. Ma Earl mostrava una pericolosa tendenza a smarrirsi, un’innata insofferenza al rispetto delle regole, un’insicurezza e una fragilità di fondo. Tutte cose che, nella durissima realtà in cui si era trovato a crescere, conducevano inevitabilmente verso la perdizione.
“Goat”, l’anima di Harlem
Dopo la scena iniziale di Kareem Abdul-Jabbar, la storia di Rebound parte da Harlem nel 1959. Earl Manigault è un quattordicenne taciturno e solitario, che passa le giornate e anche le serate a tirare a canestro. Il basket è il suo rifugio, la sua speranza. Si allena con i pesi alle caviglie per migliorare l’elevazione e la reattività di piedi e gambe.
La sua famiglia è costituita soltanto da Mary, una donna sola che lo ha adottato, gli vuole bene ma ha poco tempo da dedicargli, dovendosi spaccare la schiena in lavori umili fino a tardi. Il film non parla delle origini di Earl: nacque nel 1944 in South Carolina, ultimo di nove figli e presto abbandonato dai suoi veri genitori, poverissimi afroamericani del Sud. E quindi adottato da Mary Manigault, che gli passò il cognome.
Nei playground, Earl comincia a essere ammesso alle partite dei “grandi”, frequentate da future star come Connie Hawkins e da tanta gente “dura”, avvezza alla legge del più forte. Con un contorno di scommesse, alcol e droga gestiti dai boss di quartiere. Tra loro c’è Legrand, che avrà un’influenza decisiva sul triste futuro di “Goat”. La vita da teenager di Earl prosegue tra feste con gli amici, rissose partite nei campetti, la scoperta della marijuana. Proprio quest’ultima gli costa l’espulsione dalla scuola, la Benjamin Franklin High School, campione delle scuole pubbliche di New York. Proprio alla vigilia dell’importante partita contro la Power Memorial High School di Lew Alcindor, campione delle scuole private.
La perdizione e il ritorno
L’unico che ha a cuore il futuro di Earl è Holcombe Rucker, il custode del parco dove è solito andare a giocare e che è una figura importantissima nella storia del basket di strada della Grande Mela. Rucker cerca di farlo stare alla larga dalle compagnie pericolose e lo introduce al suo torneo, quello che diventerà poi il famoso Rucker Tournament. Dopo l’espulsione dal liceo, grazie ai suoi buoni uffici, riesce a fargli completare gli studi al Laurinburg Institute in North Carolina. Earl è poco più di un analfabeta, ma le prestazioni in campo gli valgono una borsa di studio alla Johnson C. Smith University. College che però presto lascia per i continui conflitti con l’allenatore.
Tornato a New York, con tanto di un figlio avuto dalla compagna Evonne conosciuta all’università, Earl Manigault si perde definitivamente. La sua incapacità di sopportare qualsiasi responsabilità esplode del tutto. Diventa un tossicodipendente e finisce in galera. Dopo aver scontato le sue condanne e disintossicatosi, “Goat” ottiene dai boss della zona un certo tipo di protezione per poter utilizzare liberamente un campetto. Lì organizzerà un torneo diventato sempre più conosciuto, riuscendo a fare ciò che Holcombe Rucker fece per lui.
Earl Manigault è scomparso nel 1998, a cinquantatré anni. “Goat” ha fatto comunque in tempo a vedere il film sulla sua vita, uscito due anni prima che il suo cuore malandato dicesse basta.