È una sera qualunque di un giorno ordinario, senza gloria né affanno. È quasi tempo, ma noia e stanchezza non mi permettono di giungere felice al campo da basket di Avila, a Roma.
Tengo ancora su le cuffiette ad esclusione del mondo, ripiegata su me stessa in una modalità non troppo salutare. L’animo è cupo, ogni sensazione di gioia è lontana e gelida come un inverno maturo. Nulla di incoraggiante fluisce nella mia mente: i pensieri si attorcigliano, si contorcono e strisciano. Pullulano commenti alla realtà annichiliti dal biasimo e dalla frustrazione.
Non mollo, però. Li lascio essere e mi dirigo con fermezza all’allenamento serale. Saluto Roberto e, con un sorriso che sfugge al mio controllo, scendo nello spogliatoio. Mi cambio. Il top, la fascia elastica che uso a protezione del costato, la maglietta, i pantaloncini. Scarpe, calzini e fascetta per irretire i ciuffi di capelli che mi cadono sugli occhi. Poi, senza voglia alcuna, spengo la musica e, di botto, lo sento.
È il tam tam della palla da basket, replicato in continuità dai miei compagni di squadra, che si avverte forte e chiaro già dallo spogliatoio. Si connette con il mio cuore, immediato spegne il chiacchiericcio mentale e mi invita ad andare a giocare. Uscendo dallo spogliatoio per raggiungere la mia tribù, mi accorgo di essere sopraffatta dall’emozione, dalla contentezza.
Tutto il resto è fuori da lì, ai margini della corte, posso lasciarlo andare, non curarmene, ascoltare il richiamo della palla a spicchi e rispondere senza esitare. Ora posso pensare solo alla palla, al gioco, ai blocchi e ai tagli, in armonia con gli altri, posso essere leggera!
Il basket è leggerezza condivisa. Una volta il mio coach (Stefano Mauro) mi disse che palleggiavo tenendo braccia e polso troppo rigidi, che avevo una camminata quasi bloccata e che, no, non era questo che caratterizzava un giocatore di pallacanestro.
Chi gioca a basket è rilassato, molleggiato, elastico. È sereno nell’essere se stesso in mezzo agli altri, nel mostrare tutti i lati di se, cambiando ruolo quando il gioco lo richiede, adattando mosse, finte, spostamenti in ogni azione, in ogni secondo. Si reagisce al gioco nello sviluppo dello stesso, identici ma diversi perché nessun giocatore è uguale all’altro, nessuna azione si specchia nell’altra alla perfezione.
Tuttavia, nella fermezza delle regole che valgono per tutti, c’è una mente da basket che si va formando e affermando nel tempo, accomunando tutti i giocatori in quella furba maestria di abilità che dona la possibilità di essere fluidi anche nella vita.
Siamo alle azioni finali della partita che come da tradizione, si gioca negli ultimi 30-40 minuti dell’allenamento. Il Richiamo ha funzionato: una saggia leggerezza domina il mio animo. Mi accompagna anche mentre ritorno a casa, e l’indomani, e nei giorni successivi.
Non mi lascia più, fuori e dentro al campo, qualsiasi sia il terreno di gioco, chiunque siano i giocatori. Ed è questo il dono del Richiamo. Il dono del basket. Ti rende fluido e leggero, inafferrabile, fuori dalle reti della mente e sempre a tuo agio, dentro al mondo e in mezzo agli altri.
Prima foto in alto: LARO Studio / Unsplash