La crescita del basket in Giappone raccontata attraverso i suoi volti e colori, dalla passione che arde nei playground a una NBA sempre più presente. L’esperienza al sole di Los Angeles, in quel paradiso per amanti della pallacanestro chiamato Venice Beach, sul cui asfalto ha imparato il mestiere. Il valore di un lavoro che, sì, è ciò che ha sempre amato fare, ma non per questo va svenduto. Perché produrre contenuti di qualità ha un costo.
Tutto questo è Jeremy Renault, 32 anni, fotografo francese che vive a Tokyo molto attivo sulla scena del basket nipponico, dai tornei di strada fino ai professionisti. Jeremy partecipa e collabora con eventi NBA, FIBA, Nike, Adidas, oltre a girare per palasport, scuole, campetti, narrando per immagini l’evoluzione di uno sport che, grazie a Rui Hachimura ma non solo, sta tornando a ruggire forte in Giappone dopo la grande popolarità vissuta negli anni ’90 ai tempi di Michael Jordan. Insomma, oltre a Slam Dunk c’è di più.
“Vivo in Giappone dal 2017 – racconta Renault – Mia moglie, che ho conosciuto negli Stati Uniti dove mi ero trasferito nel 2011 per frequentare il Santa Monica College, è giapponese e dopo sei anni a Los Angeles abbiamo deciso di venire qui. Per me è stato facile ottenere un visto coniugale e lavorare come freelance. Un paese bellissimo e sicuro, con cui è nato un grande feeling. Qui conoscevo già alcune persone impegnate nella promozione del basket, a ogni livello, così ho subito pensato che il Giappone sarebbe stata una sfida molto eccitante”.
Jeremy, dopo anni di Stati Uniti, quale livello di cultura cestistica hai trovato nel Sol Levante?
Prima che mi trasferissi in Giappone, ero avvezzo soltanto alla cultura del basket di strada e conoscevo qualcosa sulla B.League (la lega professionistica nipponica, ndr) dai racconti di americani che ci avevano giocato. Ciò che mi ha sorpreso di più, oggi, è il coinvolgimento degli appassionati. I giapponesi in generale amano guardare lo sport e per quanto riguarda il basket, anche se la copertura mediatica non è così ampia come quella di cui godono calcio e baseball, vanno sempre alle partite e tifano la propria squadra, sia che vinca sia che perda, vestono le maglie ufficiali, acquistano tanto merchandising. Un giorno, sono andato a fotografare una partita arrivando con tre o quattro ore di anticipo e i fan erano già all’arena, pronti a entrare.
Come viene percepita, oggi, la NBA in Giappone?
La promozione della NBA in Giappone è in forte crescita. Penso alla partnership con Rakuten per lo streaming, alle partite di preseason dello scorso ottobre 2019, ai live viewing party che hanno avuto ospiti Draymond Green, Kemba Walker, Tony Parker, Ray Allen. Oggi c’è un grande ritorno della NBA in Giappone. Persino il reality show Terrace House su Netflix ha invitato Rui Hachimura come special guest, mentre Ryo Tawatari, una delle guardie più forti della B. League, è candidato a entrare nella casa.
Rui Hachimura ha un ruolo nello sviluppo del basket giapponese?
Naturalmente, ma anche Yuta Tabuse, Yuta Watanabe, Yudai Baba. Certo, oggi Rui Hachimura è una delle pedine fondamentali per la diffusione della pallacanestro qui. Il suo volto è ovunque, dagli spot in tv ai cartelloni pubblicitari per le strade, o nella metro. I fan sono completamente presi da lui e in generale dalla NBA. E a Saitama hanno avuto l’opportunità di vedere dal vivo due tra le migliori squadre attuali, i Toronto Raptors campioni in carica e gli Houston Rockets. Due partite entrambe sold out, così come il merchandising.
America e Giappone mai così vicine nel basket: questo ci riporta ai tuoi inizi. Raccontaci come è nata la tua passione per la fotografia e quando è diventata una professione.
Nel 2012, mentre studiavo a Los Angeles dopo essermi laureato in Francia in management delle proprietà immobiliari, ho iniziato a lavorare per la Venice Basketball League durante il torneo invernale. Condividevo casa con Nick Ansom, il fondatore della VBL, e la mia vita era al cento per cento divorata dalla pallacanestro. Ho cominciato dal video editing, montando gli highlights delle partite su quei noti playground. Quindi, dopo aver acquistato la mia prima reflex nel 2013 durante un periodo di nove mesi in cui mi ero spostato a Toronto, tornato a L.A. eccomi di nuovo alla VBL come content producer per la summer league. Pian piano, i miei scatti migliori venivano ripubblicati da media come Ballislife e USA Today. Ciò mi ha aiutato a salire di livello e a dedicarmi sempre di più alla fotografia di sport e di eventi.
Cosa hanno significato per te, dal punto di vista professionale, gli anni a Los Angeles?
L’esperienza alla VBL mi ha insegnato molto sull’organizzazione di un evento e su come si lavora da project manager: dalla produzione di contenuti multimediali agli aspetti tecnici, dalla gestione del merchandising alle sponsorizzazioni. Ogni domenica ero a Venice Beach alle 7 del mattino per preparare i campi con il resto dello staff e restavo lì fino a mezzanotte passata, per predisporre i post della mattina dopo. Per un anno ho anche lavorato come business developer per un’agenzia creativa a downtown L.A. Qui iniziai a realizzare servizi fotografici per eventi, mostre d’arte e pop-up di brand quali Diamond Life, Coach, Opening Ceremony. È stato molto divertente e mi ha dato l’opportunità di incontrare molte persone, facendo qualcosa di diverso dallo sport. Quindi mi sono dedicato a tempo pieno alla VBL (dove in ogni caso trascorrevo già molte ore…) perché ciò che volevo era lavorare nel basket e guardare anche al di fuori di Veniceball.
Quanto ha influito su di te, come persona, l’esperienza di L.A.?
Los Angeles ha cambiato la mia vita, se non ci fosse stato quel periodo non farei quel che faccio oggi, né sarei quel che sono. Innanzitutto, al college ho incontrato la ragazza che poi è diventata mia moglie. Quindi, ho conosciuto Nick, che mi ha preso sotto la sua ala aprendomi gli occhi su una realtà di basket che non avevo mai visto prima. La città ha i suoi pro e contro, ogni cosa può prendere molto rapidamente una buona o una cattiva strada, ma non ho lasciato alcun rimpianto a L.A. Sono entrato in contatto con tanta gente da tutto il mondo che inseguiva il sogno americano, si vive basket 24/7, playground, parchi e palestre per il fitness sono ovunque. Ho anche giocato, e vinto, in alcune rec leagues (tornei amatoriali, ndr) ma mi sono emozionato di più nel conoscere i giocatori e le loro storie.
C’è una cultura streetball in Giappone? Quali differenze gli Stati Uniti?
Sì, ed è davvero una parte molto importante della cultura cestistica locale. Somecity, ad esempio, è una lega che organizza un torneo 3×3 in tutto il Giappone con universitari, professionisti e streetballer. Il pubblico paga persino un biglietto dai 20 ai 50 dollari per assistere alle partite ed è sempre tutto pieno. Immagina il tuo torneo al playground locale che mette su un simile incasso… Negli Stati Uniti anche la Nike Drew League è a ingresso libero e molti giocatori, rec leagues incluse, ricevono un rimborso benzina o qualche tipo di compenso. Qui invece non prendono nulla e tutto funziona alla perfezione. Poi ci sono brand di abbigliamento legati al basket di strada che hanno grande successo in tutto il paese, e non riuscirei a pensare a loro simili che abbiano lo stesso impatto negli USA o in Europa. Ad esempio Ballaholic, un marchio che ha collaborato con Pigalle e VBL, è presente ovunque e indossato in tutto il Giappone; AKTR, noto anche come Sporty Coffee, ha due negozi a Osaka e a Tokyo e offre l’esperienza di uno store-caffetteria con partite NBA in streaming. Infine Tachikara Ball è un altro brand di streetball che si distingue per la qualità del suo design. Questo per dire che il modo in cui le persone consumano basket in Giappone è molto diverso: mostrano il loro sostegno, acquistano biglietti e maglie di gioco, anziché magari chiederteli gratis. Il lato triste della streetball culture nipponica è il numero di playground. Quelli “veri” sono pochi. A Tokyo, fatta eccezione per Yoyogi Park, non ci sono altri campi interi in asfalto o cemento. Sono tutti a metà campo, molti dei quali in terra rossa.
Le tue foto ci raccontano di camp ed eventi di basket in Giappone, spesso con la partecipazione di giocatori NBA. Ad esempio Underrated Tour con Steph Curry, o Adidas Nations Tokyo, il tour mondiale del 3×3 FIBA, oltre ovviamente agli NBA Japan Games: cosa provi nel ritrovarti su questi palcoscenici?
Sono molto grato per ogni volta che ho l’opportunità di lavorare all’interno o al fianco di organizzazioni e brand mondiali quali NBA, FIBA, Adidas, Nike. Mi sento come un giocatore di basket che inizia allenandosi al playground del quartiere, poi si unisce a un torneo amatoriale, entra al college e infine arriva in NBA. Il mio percorso è stato un po’ così: ho cominciato ai tempi dell’università scattando foto alle partite all’aperto sui campi di Venice Beach e sono arrivato a lavorare per marchi e leghe top. Ciascuna stagione alla VBL, dove spesso c’erano giocatori NBA tra cui Aaron Gordon, Metta World Peace, Nick Young, accresceva il mio portfolio e quando sono andato in Giappone questo mi ha dato un ottimo credito presso i media e le organizzazioni di basket.
Sarai impegnato nei Giochi Olimpici di Tokyo 2020?
Sono molto emozionato all’idea. Finora non c’è nulla di confermato, ma spero realmente di poter fare qualcosa al torneo di basket o con qualsiasi squadra o giocatore che avrà il piacere di documentare la propria esperienza che vivrà a Tokyo.
Con quale spirito, con quale mentalità approcci alla fotografia?
Voglio essere differente. Mi piace dare sempre un taglio originale rispetto alla fotografia sportiva tradizionale che vediamo sui media. Cerco molto l’espressione di un giocatore. Lavoro sull’editing del colore per farlo sentire più freddo o più caldo in relazione all’azione e all’atmosfera dello scatto. Infine, mi alterno sempre tra video e foto: anche quando mi occupo di realizzare video, non posso fare a meno di ritagliarmi cinque-dieci minuti di sessione fotografica, perché semplicemente amo catturare il momento in entrambi i modi.
Quale consiglio dai a chi desidera trasformare la propria passione in un lavoro?
Agli eventi trovi spesso colleghi che offrono gratuitamente le proprie foto a giocatori e organizzatori. Invece, cerca di non dare gratis il tuo lavoro: non ti porterà niente di più di un “grazie”, forse rimedi una t-shirt, e questo inoltre rende più difficile trovare un incarico, se gli organizzatori sanno invece di poter contare su di te come “volontario” che sarai comunque presente all’evento. Non ti prenderanno seriamente e, pensando che tanto sarai lì lo stesso per passione, non sentiranno il bisogno di pagarti. Dai valore al tuo tempo nello stesso modo in cui dai valore al tuo materiale: creare contenuti ha un prezzo. Coltivare una passione per lo sport, la moda, l’arte ti porterà indubbiamente contatti e conoscenze, ma la realtà è che un repost o una maglietta non ti daranno il denaro per acquistare fotocamere, computer, software, accessori e non riuscirai a trasformare la tua passione in un lavoro vero. Penso che la parte più difficile sia salire di livello e sapersi vendere. Ho sempre considerato il mio tempo e l’impegno che metto nello scattare foto come qualsiasi altro lavoro. All’inizio, può essere difficile costruire questa fiducia in se stessi, ma la parte migliore dell’avventura è che dopo potrai vivere facendo ciò che ami: se lavorare sette giorni a settimana o nei weekend finisce per non pesarti, perché ti diverti a farlo, allora hai vinto.
Sei francese: cosa pensi del basket nel tuo paese d’origine?
Credo che il basket francese sia ottimo, anche se i media non gli danno il credito che merita. Abbiamo tanti talenti in NBA e in EuroLeague e il 3×3 sta crescendo bene. Il calcio è stato lo sport numero uno in Francia, ma grazie ai social le comunità di basket hanno sviluppato una forte presenza. I fan hanno iniziato a creare account Twitter per ciascuna franchigia NBA, ottenendo riconoscimenti dalla NBA stessa. Abbiamo uno dei migliori tornei streetball, il Quai 54, e i brand di scarpe stanno svolgendo tanta promozione, portando spesso giocatori NBA agli eventi. A Parigi, inoltre, un centro indoor come Nike Hoop Factory ha anche cambiato il modo in cui giochiamo nei club: possiamo andare là e affittare un campo per giocare con gli amici, oppure unirci a tornei 5×5 e 3×3 durante la settimana.
Resterai a lungo in Giappone?
A lungo termine, ora non saprei dirlo. Il Giappone è stupendo, mia moglie è giapponese ma vivo lontano dalla mia famiglia da quasi dieci anni: a volte la vita ti porta cose belle e cose brutte, e non essere vicino a loro in certi momenti è davvero duro. Cerco di tornare a casa ogni anno, ma ripartire non è mai facile.
Cosa ti aspetti dal tuo futuro?
Vorrei viaggiare di più, ci sono ancora molti posti nel mondo dove mi piacerebbe andare. Quindi, una mia mostra: ho iniziato a mettere insieme le migliori foto che ho realizzato sui campi da basket e alle partite. E voglio continuare a documentare la crescita e lo sviluppo del basket in Giappone e condividere ancor di più la conoscenza di questo paese con il resto del mondo.
[Foto gentilmente fornite da Jeremy Renault]