Sette secondi al massimo, e il modo di giocare a pallacanestro cambiò per sempre. I Phoenix Suns di Steve Nash e Mike D’Antoni hanno rivoluzionato il basket e Jack McCallum, storica firma NBA di Sports Illustrated, li ha raccontati dall’interno in quella che è stata la loro stagione più sorprendente.
Seven seconds or less – titolo originale del libro – è uscito nel 2006. La traduzione in italiano, affidata alla sapiente penna di Dario Costa (anche autore dell’introduzione), è apparsa per la prima volta nel 2024 grazie a 66thand2nd, la casa editrice romana che sta portando avanti un imponente lavoro sulla letteratura sportiva.
Il concetto base che identifica i Suns di metà anni Duemila è “corri e tira”, in gergo cestistico run & gun. Coach D’Antoni vuole che i suoi giocatori spingano forte e arrivino al tiro entro sette secondi al massimo, nonostante ne abbiano a disposizione 24 per concludere ogni azione offensiva. I Suns eseguono e sbalordiscono con il loro basket spettacolo.
Perché? Alzare il ritmo e gonfiare il numero di possessi per gara permette loro di battere l’avversario mettendolo di fronte a ritmi inarrivabili. Ma soprattutto, di sfidare i dogmi e dimostrare che un altro modo di giocare è possibile. Che anche giocando in velocità si può far strada nei playoff. I Phoenix Suns di quegli anni sono una squadra entusiasmante e anticonformista.
Dentro i Suns: la squadra che ha cambiato il basket
La storia narrata da Jack McCallum, giornalista nato nel 1949 e noto per il bestseller Dream Team sulla Nazionale USA ai Giochi di Barcellona 1992, non è quella di un trionfo. I Suns di Nash e D’Antoni, infatti, non arrivano mai al titolo NBA. Ma in questo caso l’amore per il gioco e l’importanza di perseverare nel proprio credo vengono prima di ogni vittoria.
La portata della loro rivoluzione diventerà nitida qualche anno più tardi. Quando quel modo di giocare sarà portato al successo e reso dominante in tutto il mondo. Se i Golden State Warriors di Steve Kerr – peraltro passato da Phoenix come dirigente proprio nella fase di D’Antoni – hanno sublimato una certa concezione di pallacanestro, lo dobbiamo ancor prima a quei Suns.
Anche il racconto sportivo di McCallum si può considerare una sorta di antesignano di quanto avverrà di lì a poco, con il boom dei social e delle docu-serie in streaming alla All or nothing. Una narrazione di una squadra fatta da dentro, durante un intero campionato, a stretto contatto con i protagonisti.
L’accettazione di un giornalista embedded, in continua condivisione con squadra e staff tecnico, per quanto fosse conosciuto e autorevole, non era così usuale nel mondo dello sport di vent’anni fa. E questa è un’ulteriore testimonianza di quanto i Suns del ciclo D’Antoni-Nash ragionassero fuori dagli schemi.
Sette secondi al massimo con Mike e Steve
L’autore di Sette secondi al massimo trascorre a stretto contatto con staff tecnico e squadra, con professionalità e discrezione, l’intera stagione 2005-06, quella per certi versi più eclatante. Pochi, infatti, pensano che Phoenix possa ripetere i numeri della 2004-05, la stagione di “rottura” con il passato con 62 vittorie rispetto alle 29 dell’anno precedente.
Ne emerge un intenso reportage, costellato di profondi ritratti di coach e giocatori, tra dialoghi anche sarcastici e aneddoti a non finire che in qualche modo “smitizzano” l’aura che circonda spesso gli spogliatoi NBA. McCallum porta i lettori a tutta velocità nella stagione dei Suns, alternando inoltre flashforward dei playoff e flashback sul passato di Nash, D’Antoni, Alvin Gentry, Jerry Colangelo, Robert Sarver, Boris Diaw, Shawn Marion e degli altri protagonisti.
Una corsa esaltante, in cui Phoenix non gioca solo contro gli avversari, ma contro la convinzione comune che il basket a mille all’ora fa spettacolo, ma non sarà mai vincente. Perché nei playoff il ritmo si abbassa, le difese si fanno più intense e gli aggiustamenti si accumulano. E ad avere la meglio sono squadre come San Antonio e Dallas. Proprio quelle che fanno tramontare i Soli dell’Arizona. I quali, però, hanno aperto una strada.
Sono le personalità di Mike D’Antoni e Steve Nash il collante di tutto, insieme ad altri straordinari giocatori e assistenti e a laboriosi gregari. Mente e braccio dei Phoenix Suns anni Duemila. C’è una domanda che rimarrà senza risposta: il gioco di coach D’Antoni è stato possibile solo con un playmaker come Nash? O il gioco di Nash è esploso grazie allo stile di gioco predicato da D’Antoni? Probabilmente entrambe le cose. Perché correre più veloce, guardare oltre e superare lo status quo è stata una costante delle loro bellissime carriere.
Post scriptum: il coach ideale
Concludo questa recensione con una postilla personale. Quando giocavo a basket, soprattutto ai tempi delle giovanili, non sopportavo quegli allenatori che non lasciavano spazio alla fantasia e al divertimento. E che pretendevano esclusivamente gioco controllato, difesa rigida e schemi su schemi su schemi. Tutto questo nonostante fossimo soltanto ragazzi ai cui interessava sì imparare, ma anche andare a briglie sciolte. In particolare io, visto che nella vita non sarei certo diventato un atleta professionista.
Infatti a me piaceva lanciarmi in contropiede e tirare da tre. Non avrei fatto altro, già svariato tempo prima che questi diventassero colonne portanti di ogni playbook contemporaneo. Per cui, al contrario, amavo qualsiasi coach – sia nel mio piccolo sia nella pallacanestro che guardavo in tv – che lasciasse ai giocatori libertà di espressione, preoccupandosi in primis che ciascuno trovasse il proprio modo di esprimersi. E, di conseguenza, divertirsi. Perché quando ti piace fare ciò che fai e senti fiducia, le cose riescono meglio.
Quando vennero fuori i Phoenix Suns dei “sette secondi al massimo”, fu amore a prima vista. Coach D’Antoni era l’illuminazione. Divenne per me una sorta di coach ideale. L’archetipo di allenatore che avevo sempre desiderato, ma che quasi mai ho avuto nella mia pur insignificante “carriera” cestistica. Io nel basket non ho una squadra del cuore, non sono tifoso nel senso calcistico del termine. Ma in quegli anni ammetto che rimasi male ogni volta che i Suns seven seconds or less venivano eliminati ai playoff.