Il cronometro dei 24 secondi, il cui termine tecnico è shot clock (letteralmente “orologio del tiro”), è uno degli elementi con cui chi conosce il basket ha maggior familiarità. È grazie ad esso, infatti, se la pallacanestro è diventata uno sport divertente e spettacolare.
Perché è bene sapere che non è sempre esistito. E il numero di secondi concessi alla squadra in attacco per concludere a canestro non sono stati sempre 24. Non ovunque, almeno. La sua introduzione, in ogni caso, è stata un passaggio epocale nella storia di questo sport.
Oggi, nei campionati di alto livello, è installato sopra i canestri. Spesso i grandi numeri rossi sono accompagnati, in verde o arancione, dal tempo del quarto di partita in corso. Quando lo shot clock si esaurisce e suona la sirena, si illumina di rosso anche il bordo del tabellone.
A volte, invece, il cronometro dei 24 secondi è mobile e viene appoggiato agli angoli del campo. In certe categorie minors, dove tutto è più naïf, è probabile che nemmeno ci sia. Il tempo per andare al tiro viene allora tenuto da qualcuno al tavolo o indicato su un cronometro manuale. E quindi chiamato ad alta voce e ripetuto dall’arbitro per informare i giocatori.
Andiamo ora alla scoperta della storia di questo orpello di cui nel basket organizzato (nello streetball è un’altra storia…) non si può fare a meno.
Il basket arcaico: niente cronometro dei 24 secondi
Dalla nascita della pallacanestro, avvenuta ufficialmente il 21 dicembre 1891 ad opera di James Naismith, e per oltre sessant’anni il basket non ha lo shot clock. Di conseguenza, la squadra in attacco non ha alcun motivo per affrettarsi al tiro.
Come nel calcio, è dunque possibile fare “melina” per far scorrere il tempo. La squadra in difesa, invece, è costretta a fare fallo per costringere l’avversario ai tiri liberi e riprendersi il possesso della palla.
Insomma, con punteggi inevitabilmente bassi e azioni infinite, non è che il basket arcaico sia esattamente un gioco attraente e spettacolare. Anche nei primi anni della NBA è così, tanto che il 22 novembre 1950 Fort Wayne Pistons e Minneapolis Lakers stabiliscono il punteggio più basso mai registrato in una partita: 19-18. Il pubblico non gradisce, ma nulla cambia almeno fino al 1954.
Danny Biasone, il padre dello shot clock
Se oggi possiamo divertirci guardando o giocando una partita incerta fino all’ultimo secondo e con innumerevoli e a volte incredibili ribaltamenti di fronte, lo dobbiamo a un uomo di origine italiana, Daniel “Danny” Biasone, emigrato oltreoceano ai primi del Novecento, come milioni di altri connazionali.
Biasone è considerato il padre del cronometro dei 24 secondi. Scomparso nel 1992 a 83 anni, incarna una classica storia di sogno americano, intrisa di sudore, determinazione e sport. Nato nel 1909 a Miglianico, in provincia di Chieti, lascia l’Italia da bambino con la famiglia e approda negli Stati Uniti, dove cresce destreggiandosi tra football, baseball, basket e golf.
Da grande diventa imprenditore a Syracuse, facendo fortuna con le piste da bowling. Nella città del New York State settentrionale fonda nel 1946 i Syracuse Nationals e partecipa in prima persona alla nascita di quella che diventerà la NBA. Come presidente dei “Nats” – che in seguito diventeranno i Philadelphia 76ers – vince il titolo nel 1955 e resta al timone della franchigia fino al 1963.
Cronometro dei 24 secondi: come è nato
Il maggior contributo di Danny Biasone alla pallacanestro, che gli vale l’ingresso nella Hall of Fame, è però il grande lavoro di convincimento, insieme al general manager dei Nationals Leo Ferris e al capo scout Emil Barboni, presso Maurice Podoloff, il primo commissioner della NBA. Obiettivo: adottare la regola dei 24 secondi per il tiro. Anche se sembra che sia stato Howard Hobson, allenatore dell’università dell’Oregon, il primo a parlare di quest’idea a Barboni, di cui era commilitone durante la seconda guerra mondiale.
La NBA, negli anni Cinquanta, era ancora giovanissima e in forte crisi di pubblico anche a causa delle partite diventate troppo noiose, decide di introdurre lo shot clock dalla stagione 1954-55. Una rivoluzione che muta per sempre il gioco. Il primo anno si registra una crescita di 13,6 punti a partita. Chi vince il titolo? I Syracuse Nationals…
Perché 24 secondi? Secondo Biasone, ogni partita deve avere circa 120 possessi. Studiando i tabellini, nota infatti che nelle partite più interessanti ogni squadra ha effettuato almeno 60 tiri. Dividendo per 120 i 2880 secondi totali di una gara (48 minuti), il risultato è 24.
La sperimentazione avviene il 10 agosto 1954 in una partita di allenamento alla Blodgett Vocational High School di Syracuse, il liceo frequentato da Biasone. Partecipano vari giocatori dei Nationals, tra cui Dolph Schayes, e vari universitari, di fronte a una pletora di proprietari, manager e allenatori NBA. Il cronometro originale è conservato al LeMoyne College, mentre in città lo ricorda un monumento.
Non solo 24 secondi
L’adozione del cronometro dei 24 secondi non avviene contemporaneamente nei vari livelli e campionati di basket. La FIBA lo fa nel 1956, due anni dopo la NBA. Ma con partite lunghe 40 minuti e non 48, si introduce un timer da 30 secondi, che dura fino al 2000, quando in tutta la pallacanestro internazionale si passa a 24 secondi (e alle partite da 4 periodi da 10 minuti).
A livello femminile, nel college basketball lo shot clock debutta nella stagione 1970-71 e anch’esso dura 30 secondi. Così come in WNBA, nata nel 1997, che passa a 24 secondi nel 2006.
Nel basket universitario NCAA maschile lo shot clock non è previsto addirittura fino al 1985, quando si istituisce un tempo di 45 secondi per tirare. Nella stagione 1993-94 si abbrevia a 35 secondi e dal 2015-16 ulteriormente a 30, come è ancora oggi (ma in Canada sono 24). Nelle high school non è obbligatorio, ogni stato può decidere se utilizzarlo e con quale durata.
Oggi, sia in NBA che nel basket FIBA, l’azione offensiva è persino abbreviata a 14 secondi (o a 20 laddove lo shot clock è ancora da 30 secondi) in seguito a un rimbalzo offensivo o a interruzioni dell’azione d’attacco con mantenimento del possesso.
Lo shot clock non è un’esclusiva del basket. È presente anche in altre discipline come pallanuoto, lacrosse, football americano e canadese e oggi anche nel baseball per velocizzare i lanci (pitch clock).