Si è tenuto l’ultimo allenamento della stagione ad Avila. A Roma il tempo è inclemente e sottopone la popolazione a un clima impossibile, che negli allenamenti serali si trasforma in qualcosa di infernale.
Sudiamo come se dovessimo esaurire tutta l’acqua che abbiamo in corpo. Goccioliamo pericolosamente qua e là sul campo in parquet. Non mi sembra vero che sia trascorsa un’altra stagione. La misura del tempo andato appare ancora più irreale, se penso a quanto ho imparato seguendo il coach e gli esempi dei giocatori virtuosi che si incontrano ad Avila per gli allenamenti del lunedì e del mercoledì sera.
Quest’anno sono certa di poter dire di aver imparato meglio a difendere, di aver migliorato la tecnica di tiro. E di aver capito che il tabellone può essere utilizzato per fare canestro, se solo fossi in grado di sferrare un attacco come si deve… Ma ci sto lavorando!
Proprio a ridosso della fine della stagione, ho iniziato a penetrare in area con risultati quasi sempre comici e poco aderenti alle tecniche di gioco. La sorpresa è stata la pazienza applicata dagli altri giocatori nei miei confronti. Oppure i rimbrotti e le risate a commenti del coach come “oh, finalmente hai scoperto che esiste il terzo tempo a basket!”. E la mia capacità, anch’essa recentemente acquisita, di essere più compassionevole con me stessa e con gli altri, di enorme sollievo.
Poi, ho giocato la mia prima partita. Mi sono misurata per la prima volta al di fuori della realtà che conosco. Grazie ad alcuni compagni, ho fatto la mia prima esperienza di strada. Ma soprattutto ho avuto la sensazione di essere anche io una giocatrice di basket. Di fare parte di un modo di vedere il mondo arricchente e determinante per sentire la fluidità della vita.
Continua a stupirmi la natura della pallacanestro, che costringe ogni giocatore a non identificarsi in un ruolo preciso. Sì, certo, un playmaker non è come un’ala, ma girando nei vari ruoli e giocando ora in difesa ora in attacco, le differenze si condividono e si vivono anche con gli avversari. Diventano uguaglianze e connessioni che, in fondo, hanno un unico comune denominatore: lo spirito del basket.
È un’esperienza che porti con te anche al di fuori del gioco. Impari a sederti al tavolo della vita senza ricoprire un ruolo definito, ma divenendo ogni volta ciò che la realtà ti richiede, ogni volta nella migliore versione di te stessa. Non è così che si gioca del resto? Dando il meglio in ogni azione, in ogni partita, in ogni canestro e in ogni sdeng?
Sono convinta che per tale ragione, praticare la palla a spicchi possa essere un’incredibile occasione di crescita personale. Al di là della bravura del singolo giocatore, può rendere migliori e più pronti a confrontarsi con gli altri, chiunque siano, in qualsiasi modo giochino, perché in fondo in ognuno c’è un po’ dell’altro.
Sarò romantica, ma voglio salutare tutti coloro che leggeranno questo pezzo, affermando che lo spirito del basket è, in fondo, insito nella magia dell’accettazione. E che il gioco della pallacanestro è uno degli strumenti messi a disposizione per portare agli altri ogni differenza e ogni similarità che ci caratterizza, in un modo pacifico e inclusivo.
Per un po’ non ci vedremo ad Avila, ma il basket resta con me sempre, nel messaggio universale che reca con sé e che sempre più segna il mio modo di vivere. Rendendomi più gioiosa, più leggera e più elastica nel consentire a ogni situazione e a ogni creatura di essere ciò che è, me compresa.
Buone vacanze, ovunque voi siate! (PS: io la palla la porto!)